Valditara conferma: l’AD rafforza differenziazioni e privatizzazioni! I COBAS partecipano il 29 gennaio all’Assemblea nazionale contro l’Autonomia differenziata
Il tentativo del Ministro Calderoli di accelerare la regionalizzazione, condividendo un documento con i presidenti di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna e presentando un disegno di legge sull’attuazione dell’Autonomia Differenziata, ha subito uno stop dalla Meloni, secondo cui l’ AD deve viaggiare insieme al presidenzialismo e ai poteri speciali per Roma. Ma l’AD è stata anticipata con l’inserimento di un articolo sui LEP nella Legge di Bilancio 2023. La definizione dei LEP verrebbe affidata ad una struttura interministeriale con 6 mesi per individuarli e 6 per approvarli con DPCM. Se non ci riuscissero, sarà nominato un Commissario senza interventi del Parlamento. L’art. 7 della bozza Calderoli prevede che “dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non derivano maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Il direttore dello Svimez, Luca Bianchi ha segnalato il pericolo “della mancanza di riequilibrio dei divari territoriali” e ha avvertito che “sono vent’anni che si attende la definizione dei LEP per il superamento del criterio della spesa storica, che sino ad oggi ha cristallizzato i divari di servizi nel nostro Paese”. Le critiche più accese riguardano la necessità del rispetto del principio di uguaglianza, di perequazione e di solidarietà nazionale, mentre il presidente Mattarella ha posto l’accento sui diritti sociali e civili ed esigenze perequative. Con l’AD all’erario sarebbero sottratte ingenti somme: il Veneto tratterrebbe il 90 % del gettito fiscale togliendo allo Stato circa 41 mld l’anno, la Lombardia oltre 100 mld, l’Emilia Romagna 43, con una perdita complessiva di 190 su 750 miliardi annui di gettito fiscale.
Si registrano dubbi in FI, mentre FdI subordina l’AD al presidenzialismo, con conseguente centralizzazione e personalizzazione del potere, senza neanche i contrappesi che vi sono, per esempio, in Francia. Avremmo così una concentrazione dei poteri a livello statale e regionale, ove la sciagurata riforma del Titolo Quinto del PD ha già creato un sistema presidenziale con scarsi contrappesi; i poteri dei governatori aumenterebbero ulteriormente con il passaggio di tutte o della maggior parte delle materie, ora di competenza ripartita tra Stato e Regioni, solo alle Regioni. Le ultime notizie, da verificare, parlano dell’abbandono del criterio della spesa storica che penalizza pesantemente il Sud e della subordinazione dell’avvio della riforma alla definizione dei LEP, che ha incontrato fin qui ostacoli tecnici e politici insormontabili. Ma avremmo comunque la frantumazione regionale dei principali servizi pubblici e dei relativi diritti sociali costituzionali. I livelli “essenziali” da garantire a tutti hanno in sé il germe della differenziazione: essenziale è solo il minimo comune denominatore e, quindi, la garanzia di una piena omogeneità dei diritti uscirebbe dagli obiettivi politici, rinunciando a garantire l’uguaglianza costituzionale. Inoltre, il deflusso di risorse dallo Stato alle Regioni spingerebbe a collocare in basso i livelli essenziali. E vanno ricordate le pesanti responsabilità del PD, che con il DDL Boccia ha aperto la strada all’AD nella versione LEP, tanto più che ora il principale candidato alla segreteria è il presidente dell’Emilia Romagna, una delle tre regioni apripista.
In particolare, ricordiamo che la relazione della Commissione di giuristi alle Commissioni bicamerali ha rilevato che “è preferibile espungere in questa prima fase la materia dell’istruzione, il cui trasferimento porrebbe problemi politici, sindacali, finanziari, tributari quasi insormontabili, con un quasi sicuro aumento dei costi di sistema sia per le Regioni destinatarie del trasferimento, sia per lo Stato”. L’istruzione è la voce più rilevante dal punto di vista finanziario: circa 5 miliardi in Lombardia e poco meno di 3 in Veneto, con migliaia di docenti e Ata in transito nei ruoli regionali con differenziazioni salariali e normative. L’AD frantumerebbe il sistema unitario di istruzione, minando alla radice diritto e libertà di insegnamento (artt. 3, 33 e 34 Cost.), subordinando la scuola all’indirizzo politico-culturale regionale e alle esigenze delle imprese locali. Anche i percorsi PCTO, l’istruzione degli adulti e tecnica superiore e gli indicatori per valutare gli studenti sarebbero decisi a livello territoriale, con progetti sempre più legati alle esigenze produttive locali. Vi sarebbero concorsi e ruoli regionali per il personale e più difficili diventerebbero i trasferimenti interregionali.
La contrattazione nazionale sarebbe residuale, con salari che potrebbero crescere a Nord e diminuire a Sud: previsioni che trovano conferma nelle dichiarazioni di Valditara, che ripropone le gabbie salariali e l’aumento del finanziamento privato. Gli stipendi di docenti e Ata devono, invece, recuperare tutti il 27% di potere d’acquisto perso in media negli ultimi decenni e adeguarsi ai livelli europei. Poi, nell’operare confronti bisogna tener conto anche del differenziale nella fornitura di servizi pubblici, che l’AD amplierebbe, perché strutturalmente quanto più si accrescono le competenze degli Enti locali, tanto più la carenza di risorse spinge verso la privatizzazione. Naturalmente i privati, che fin qui hanno usato poco gli sconti fiscali per le donazioni alle scuole, previsti dalla Legge 107/2015, chiederanno delle contropartite, condizionando pesantemente le finalità della scuola e facendone venire meno il ruolo pubblico.
Per tutte queste ragioni, i COBAS, insieme al Comitato Nazionale per il ritiro di ogni AD, hanno partecipato alla manifestazione del 21 dicembre e saranno all’Assemblea nazionale contro l’AD (Roma, Liceo Tasso, Via Sicilia, ore 10) di domenica 29 gennaio.
Carmen D’Anzi e Rino Capasso Esecutivo nazionale COBAS Scuola
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